Un celebre libro del teologo Mancuso cerca di spiegare in oltre cinquecento pagine il destino dell'anima.
Peccato che l'anima sia indimostrata. Peggio, non c'è.
Partiamo dal fatto che gli animali, i mammiferi certamente ma anche gli altri esseri viventi, pensano.
Il pensiero è la manifestazione dell'organizzazione neuronale.
Nell'uomo il pensiero cerca di rappresentarsi, e ovviamente si rappresenta come incorporeo, cedendo alla tentazione di non definirsi come epifenomeno del corpo, come manifestazione di un'organizzazione chimico-fisica neuronale, ma come entità autonoma, distinta e separata dal corpo, eterea, incorporea.
Cosa che evidentemente non è.
Il pensiero che riflette su se stesso evita di farsi coinvolgere dalle magagne del corpo, che sa essere caduco e destinato alla svaporazione.
Il pensiero, quindi, si autodefinisce come permanente e di lì tende a gratificarsi attraverso l'immortalità che, unito al corpo, gli sarebbe negata.
Se il pensiero è caduco quanto il corpo ne consegue che il suo riflesso, la sua immagine di sè che chiama spirito, è altrettanto caduca e mortale.
A tutti è noto come il corpo influenzi la mente e lo spirito: un malanno o un malessere, un dolore o una malattia, inferiscono consistentemente sulla struttura dell'organizzazione mentale.
La violenza, l'astio e la rabbia di Lutero non sono comprensibili se non si considera l'afflizione di Martino da una stipsi ostinatissima che lo condurrà alla morte.
Quindi il corpo, null'altro che il corpo, è il fulcro delle cose.
La mente è figlia del corpo, il pensiero una manifestazione della mente, lo spirito una rappresentazione del pensiero.
I romani lo avevano ben capito quando affermavano "mens sana in corpore sano", non disgiungendo i due termini, ma accumunandoli in un medesimo organismo complesso.
Poi arrivarono i cristiani, che divisero con l'accetta lo spirito dal corpo, e si scatenarono le nevrosi.
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