Era il 1974. Renato Pozzetto incideva un 45 giri che parlava di "quel pirla di un Silvio", una risposta meneghina all'imperante provocatorietà degli Squallor, celeberrimo gruppo musicale dall'eterosessualità partenopea dirompente.
Quel pirla di un Silvio era un "bauscia" a tutto tondo, un cacciaballe impenitente, un arruffatore di amici che alla fine non combinava niente ma che sapeva intortare le gente.
Non so se vi sia più traccia di quel disco, che era un recitato e nemmeno un gran che dal punto di vista artistico, ma varrebbe la pena riesumarlo.
Quello che normalmente dei milanesi infastidisce le altre italiche etnie era tutto riassunto in quei tre minuti di ascolto.
Noi sì che lavoriamo, gli altri parlano solo; noi sì che sappiamo fare le cose bene; faremo questo e quello, e anche di più; milanesi col cuore in mano e generosi, mica gretti e chiusi come gli altri; romani e meridionali lavativi e fannulloni; il milanese intrattenitore a tavola, il milanese che canta e fa baldoria, il milanese che apprezza le belle donne, il cumenda con le amanti da esibire, il milanese che "ghe pensi mi", sono solo alcuni degli stereotipi più noti.
E quel pirla di un Silvio le rappresentava senza lasciarsene sfuggire una.
Ma aveva un paio di difetti: non rispettava le promesse e raggirava gli amici, come l'altro milanese, l'Armando, cantato da Jannacci.
Tra i due 45 giri il finale era diverso: quel pirla di un Silvio era coperto da una raffica di insulti, mentre l'Armando veniva scaraventato giù dalla macchina in corsa.
A volte alcune canzoni nascondono tracce di verità. Altre hanno un che di profetico. Meglio non sottovalutarle.
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